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25.4.15

Da Platia Omonia

C'e' un posto dove una rotonda non piu' vecchia di un decennio, scandisce il rumore e un traffico di marmitte taroccate dal 92 al 2001; di clacson dei "tariffas" gialli, dei lavori eternamente in corso, dove pendevano le mura la dove si vede l'Acropoli e in tutti i punti di quella citta' ideale,  si vedeva l'Acropoli.
 Anche se mescolo la storia, di chi ci ando' 40 anni fa in viaggio di nozze, cioe' coloro che mi diedero la culla e i miei passi di 15 anni fa, sulle rocce che al sole di marmo brillavan di rosa.
E il manto di cielo di quell'ora lì, io lo avro' incorniciato nelle pupille sempre, come l'ora piu' viva della mia vita, dove sentivo addosso quell'onda di luce che mi buttava sempre in un mare infinito e grandioso.
C'erano gli alberghi tutti, quelli dei turisti, c'erano le case basse e chiuse, con una lanterna accesa se la "casa" era aperta.
Questi alberghi e Grand Hotel mi avevano sempre affascinato, e immaginavo di lavorarci dentro, di parlare il greco col quel tono armonico e cantato o di essere un'altra moltitudine di persona che passava in quella piazza, si mangiava una tiropita al volo sopra a un motorino, vendeva valigie di pelle falsa e ti rincorreva per farti il prezzo buono, o una donna dalla pelle di ceramica dai tratti orientali e un fazzoletto di seta rosso al collo che sembrava scivolarle come un drago a chinatown.
L'hotel Parigi era una bettola a tre stelle, per lo piu' per studenti, italiani, spagnoli, inglesi; e ogni drakmes sbattuta sul bancone tra le bandierine greche, aveva fatto il giro del mondo, nei sogni di Ulisse e di alcune sirene, che da un'isola all'altra si ritrovavano nel caldo implacabile e ancestrale di Atene, sulla strada del porto e del mare.
Quanti estati, di quelle che ti cambiano la vita, si incrociavano sugli stessi passi, nel filibus scintillante dalle sedie di legno che sembravano elettriche; fin sotto alle piastrelle della metropolitana post decò verdi e anni settanta, dell'unica linea, prima delle Olimpiadi.
C'e' chi c'era andato con la cinquecento ad Atene, passando per la Juguslavia, e aquando si chiamava ancora così; con la musica e l'allegria spietata degli spari dei Balcani, le nuvole di piombo di certi giorni che avevano ammazzato Panagoulis, per un'altra strada, dove abitavo io, per Agios Dimitrios.
Così tante rose, ogni giorno, perdere petali di sangue di gioventù rubate di bambini ad offrirti un sorriso puro anche se orchestrato.
Il vento caldo, la pelle calda e una luce che io ricollego nella mia mente e nel mio cuore, solo ad Atene, quella che ti prende per pazzo, a quarantacinque gradi nella piazza, platia Omonia, che aveva anche le palme a Natale, e lucine sgangagliate tutt'uno con i lampioni dell'elettricita' e le palline florescienti dei pachistani a vender ai turisti.
Che caos e che infinito groviglio di pasticci e odori, colori e crocevie.
Ah, come mi manca tutta la matassa da sfilare, ora che e' così facile avere un orgasmo malinconico.
Una perla alla volta, e squame cangianti di quelle code di sirena, canti e santi per ogni giorno e per la Pasqua, dove ogni volta rinascevo da una barca.
E c'erano i gabbiani al mercato, con l'odore del mare su un piattino del caffe' con le onde di sabbia da gustare piano.
Il canto delle cicale, dove mai piu', in qualsiasi mondo, potro' mai riposare così bene come quei pomeriggi lenti.
Dove immense braccia di un ulivo mi tiravano i capelli lunghi, col profumo di resina, anche le mie labbra imbevute di vino divino, e di retzina.
E i tuoi dolci mielosi e turchi, da quel Bosforo ventoso e dai mille tesori, ancora brillano negli occhi di chi mi amava; sopra a una barca colorata e dalla vela di seta, brillare al sole.
Non ti direi mai addio Grecia, perche' mai ti ho lasciato sola a tutta la tua bellezza; e in questi pomeriggi lontani e orientali e sovrumani nella nostalgia, mi piace riviverti tutta dentro per non perderti.




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